Indice
1)
Introduzione
2)
Origini della clinica in medicina
3)
Approcci clinici in psicologia (J. M. G. Itard e J. Piaget)
4)
Origini filosofiche della pedagogia clinica (J. J. Rousseau)
5)
Pedagogia scientifica (M. Montessori)
6)
Pedagogia emendativa e didattica differenziale (I. Cervellati
e A. Benfenati)
7)
Da pedagogia speciale a pedagogia clinica (R. Zavalloni,
A. Canevaro e P. Crispiani)
Bibliografia
1) Introduzione
Una delle soluzioni al problema dell’identità
della pedagogia in Italia dopo l’Attualismo gentiliano (cfr. “Momenti di pedagogia e scienze dell’educazione in Italia dopo il
fascismo” dello scrivente), caratterizzata sia da un lato dalla netta opposizione
alla morte della pedagogia, già dichiarata da alcuni Autori direttamente smentiti
dal grande sviluppo dell’area disciplinare prima nella società civile e poi
nelle istituzioni formative specifiche, sia dall’altro lato dal superamento
definitivo della contrapposizione dei restanti Autori tra fautori della dimensione
filosofico-critico-ermeneutica e di quella scientifico-sperimentale, è la
via lucidamente proposta da R. Massa
[1]
con l’individuazione e l’argomentazione di una nuova prospettiva
evolutiva in direzione della clinica della formazione. Queste proposte che
paiono oggi ancor più interessanti, perché dettate
quando ancora i fenomeni socioculturali predisponenti erano solo accennati,
risalendo il lavoro di Massa alla fine degli anni ‘80, torneranno alle nostre
cure verso la conclusione della presente rassegna; fin da ora, tuttavia, è
necessario fare riferimento ai segnali premonitori delle tendenze che poi
negli anni ’90 e nell’ultimo decennio del ventesimo secolo si affermeranno
definitivamente riguardo allo sviluppo dell’educazione in quella che è stata
denominata la “società di seconda modernità”
[2]
e che comunemente è indicata col termine di società postmoderna
[3]
.
Il
campo epistemico di tale prospettiva, infatti, si è dilatato a partire inizialmente
dalla definizione e dalla progettazione dei piani di studio dell’istruzione nei curricoli formali e dallo studio antropo-sociologico
di quell’educazione che si realizza nei percorsi informali e non formali di
socializzazione e acculturazione, per arrivare oggi ad inglobare anche quelli
della formazione (professionale) di tutti i lavoratori, sia rivolta ai giovani
(prima formazione) che agli adulti (formazione in servizio e formazione aziendale).
La formazione aziendale dei lavoratori nella società postindustriale italiana,
infatti, partendo dal tradizionale fine d’addestramento e preparazione al
lavoro con l’insegnamento di capacità tecniche più o meno elementari, si è
affermata come uno degli strumenti più importanti nella strategia sociale
della concertazione o nella gestione dei conflitti sindacali per il rinnovo
dei contratti o nelle necessità di riconversione industriale, perché potenzialmente
capace di sviluppare l’identificazione dei lavoratori nell’obiettivo aziendale,
anche quando le dinamiche sindacali avessero già
portato alla diretta contrapposizione degli interessi dei lavoratori contro
quelli del padronato, o del gestore che agisce in nome del padronato.
Si tratta, ovviamente, di processi d’insegnamento
[4]
adatti per l’apprendimento di persone adulte (l’attuale
“lifelong learning” o, come si chiama da sempre, “educazione permanente”)
e in situazioni di vita e carriera molto diverse: si va dal semplice aggiornamento
per l’acquisizione delle nuove tecniche produttive, alla riconversione professionale
intra o interaziendale, fino al vero e proprio riorientamento del lavoratore
con bilancio di competenze per decidere d’intraprendere un nuovo lavoro; ovvero
dalla formazione gestionale e manageriale per i quadri, a quella al comportamento
organizzativo o per la sicurezza e per la qualità totale potenzialmente rivolta
a tutti. Nella formazione si sono ormai affermati sia dei ruoli specifici
di formatori, come quelli dell’analista dei bisogni, o del progettista dei
percorsi, o del valutatore dei risultati, che dei modelli di lavoro formativo
per un relatore d’aula, un animatore di gruppo, un tutor di laboratorio e
un tutor di stage, fino a vere e proprie strategie generali che si sono imposte
nelle politiche formative, come stanno a dimostrare
lo sviluppo di percorsi formativi per Unità Capitalizzabili
[5]
, realizzati dall’Istituto per lo Sviluppo della Formazione
professionale dei Lavoratori (ISFOL nato nel 1973), e la definizione di normative
per la certificazione delle competenze.
Ancora in questa direzione, conseguentemente
e successivamente, accanto alla formazione si è andato
sviluppando tutto il settore dell’orientamento, da quello esistenziale della
persona in difficoltà, a quello scolastico e professionale per la scelta degli
studi, fino a quello sul lavoro
[6]
e, parimenti, si sono affermate nuove figure di consulenti
pedagogici e orientatori nella scuola, nell’università, nel mondo del lavoro,
nel mondo della terapia e del sostegno psicologico. Solo oggi, però, si comincia
ad intravedere la necessità di un’organizzazione generale unitaria di formazione
e orientamento nel territorio per lo sviluppo delle politiche dell’occupazione
[7]
, certamente perché solo oggi si va ad un conferimento unitario
di competenze nel settore (si consideri il Decreto Legislativo 112/98, la
Legge Costituzionale n. 3/01 e la Legge Costituzionale detta della “Devolution”
che deve essere sottoposta al Referendum). Solo oggi, anche perché relativamente
da pochi anni si è determinata quella prospettiva della “società della conoscenza”
[8]
, posto come traguardo di sviluppo delle Risorse Umane da
parte dell’Unione Europea e, del resto, solo in questi ultimi anni anche la
scienza psicologica ha cominciato a perlustrare in profondità il problema
della coscienza e della mente applicata ai processi d’apprendimento e di studio
(con il Cognitivismo che ha decisamente sostituito dopo un lungo cammino il Comportamentismo
d’inizio del secolo scorso), offrendo nuovi strumenti interpretativi e operativi
alla formazione e all’orientamento
[9]
(oltreché all’istruzione e all’educazione, s’intende).
Tutto ciò si sta coniugando, poi, con
la nuova tendenza pedagogica imboccata perentoriamente mediante la personalizzazione dei percorsi scolastici e formativi della
riforma scolastica in atto (ma che potrebbe subire anche gravi decussazioni
nella fase di stabilizzazione, se portata a compimento da politici di diverso
schieramento). Perché la personalizzazione, come effetto dell’insegnamento
e dell’apprendimento metacognitivi con l’introduzione nella progettazione
per obiettivi formativi e competenze di un “portfolio” da compilare in modo
interattivo tra docenti, allievi e genitori
[10]
, e non, come solitamente è intesa, effetto della flessibilità
del curricolo che era già presente anche nell’individualizzazione della programmazione
per obiettivi, antecedente la riforma dell’autonomia, seppur
in dimensione ridotta per la rigidità dei curricoli nazionali, questa vera
chiave di volta del cambiamento della scuola italiana, può apparire proprio
come l’espressione massima di quella intenzionalità clinica già proposta da
Massa a compimento delle sue analisi nel campo della formazione in pedagogia,
medicina e psicologia
[11]
.
L’esperienza clinica, infatti, si caratterizza
espressamente per il suo riferimento ad una realtà presente, concreta e individuale;
in tal senso, pur condividendo le origini col pensiero scientifico e la sua
atmosfera sperimentale, mostra non lievi diversificazioni dall’analisi quantitativa
realizzata in supporto dell’intenzione nomotetica di quello a favore delle
proprie analisi qualitative nella dimensione idiografica. Tali assunti,
poi, portano la scienza a considerare le ricerche cliniche solo
come indagini “presperimentali” che si affiancano, così tipicamente,
alle caratteristiche deontologiche della ricerca in pedagogia (già ricordate
nel precedente articolo). Ma non basta, “l’atteggiamento clinico comporta
il ritorno continuo sull’enigma osservato, in quanto
presuppone che esso abbia una sua storia naturale … ha pertanto di mira un
tipo di spiegazione e di comprensione che sia essenzialmente storico-genetico-ricostruttivo”
[12]
, così come oggi s’intende sia nel tracciare il bilancio
di competenze nella formazione e nell’orientamento, sia nel costruire il portfolio
delle competenze individuali dell’educazione scolastica.
2) Origini
della clinica in medicina
La clinica in medicina possiede radici
antiche nell’individuazione naturale dei sollievi che il malato da sempre
si cerca di dare da solo o con l’aiuto delle donne di casa, preziose raccoglitrici
dei rimedi alle malattie come delle cure per i bambini e per i vecchi tramandate
da madre in figlia, ascoltando il proprio stato morboso attraverso una sensibilità
spontanea e lontana dalla mediazione del sapere esperto di un altro uomo,
sano e che, magari, non è mai stato malato della sua malattia. Ma quest’antica
sapienza diffusa viene ben presto occultata dall’autorità della professione
medica, dopo Ippocrate (che aveva ancora saldato la fisiologia alla patologia
del corpo osservando le caratteristiche della specifica situazione sintomatologica
in relazione all’equilibrio degli umori dell’organismo
e ad una teoria dei luoghi), infatti, la primaria esperienza dei rimedi spontanei
è stata ricodificata in un sistema filosofico che privilegia nei medici a
partire da Galeno un atteggiamento pregiudiziale per cui, prima di cogliere
“la malattia nello spessore del corpo malato”, si deve fare riferimento a
“un’organizzazione gerarchizzata in famiglie, generi e specie … che presuppone
una certa configurazione della malattia … questa organizzazione relega nei
problemi subalterni la localizzazione nell’organismo
[13]
”, in diretto collegamento con la concezione aristotelica
che non ammette conoscenza del caso singolo, se non attraverso la percezione
delle “forme” generali (caratteristiche conoscitive della realtà).
Così per lungo tempo l’ontologia metafisica
copre la fenomenologia vivente della malattia agli occhi del medico, finché
nel Settecento (con ampi avvii fin dal Rinascimento italiano) risorge l’antico
sguardo clinico che può sovrapporre i due spazi, quello della configurazione
della malattia e quello della localizzazione del
male nel corpo del malato, per determinare l’individuazione dei sintomi soggettivi.
In seguito col progresso della medicina degli organi prima, e quella dei tessuti
poi, si raggiungerà uno statuto diffuso della clinica nell’Ottocento con lo
sviluppo dell’Anatomia patologica, per l’avvio della ricerca dei segni oggettivi.
La rinascita di questa medicina individualizzante si determina nella coscienza
dei medici illuministi mediante la contrapposizione dell’esperienza storica
della malattia alla sua classificazione statica nel quadro filosofico: “È
storica la conoscenza che circoscrive la pleurite tramite i suoi quattro fenomeni,
febbre, difficoltà di respirazione, tosse e dolore al fianco. Sarà filosofica
la conoscenza che discute dell’origine, del principio e delle cause: raffreddamento,
spurgo sieroso, infiammazione della pleura”
[14]
.
In questa direzione si devono osservare
alcuni elementi importanti, come il fatto che quanto c’è di storico raggruppa
tutto ciò che può essere colto dallo sguardo clinico (per pervenire alla diagnosi)
in modo processuale, diacronico, con sfasature o equilibrazioni che possono
essere considerati soltanto stando vicino al malato, diversamente dal pensiero
filosofico, classificatorio in modo genealogico che propone la malattia in
uno spazio piatto, sincronico, di una perpetua simultaneità dovuta all’inquadramento
nosologico avulso dalla situazione reale del malato. Poi lo sguardo clinico
utilizza le analogie tra le malattie per coglierne l’identità (le caratteristiche
fondamentali), così facendo rappresenta progressivamente anche una classificazione
che, però, soggiace alle sole somigliante e differenze
tra processi morbosi: “La distribuzione prospettica che ci mostra nella paralisi
un sintomo, nella sincope un episodio, nell’apoplessia un attacco organico
e funzionale, non esiste per lo sguardo classificatore che è sensibile alle
sole ripartizioni di superficie in cui la vicinanza non viene definita da
distanze metriche, ma da analogie di forme”
[15]
, si tratta della classificazione genealogica di cui sopra
e che può falsare notevolmente la diagnosi e la prognosi conseguente.
Il compito
preciso della medicina clinica è, dunque, quello di individuare il principio
delle malattie attraverso l’opacità e la confusione dei sintomi; per Foucault,
infatti, la clinica costituisce probabilmente il primo esempio, dopo il Rinascimento,
di un tentativo di fondare una scienza sul solo campo percettivo e sul solo
esercizio dello sguardo. Pur non essendo assolutamente d’accordo con la sua
affermazione, né sul fatto che la medicina sia stata la prima scienza slegata
dalla filosofia da un intervento percettivo (-sperimentale), né che la clinica
si basi solo sulla percezione (ma sappiamo che non si deve leggere l’A. alla
lettera nel suo argomentare ermeneutico), seguiamo il suo discorso molto interessante
sui codici percettivi che legano il campo (del corpo malato da osservare)
e lo sguardo del medico in una struttura (sistema) comune: la struttura linguistica
del segno e quella aleatoria del caso.
Nella tradizione medica iniziale del Settecento
il medico può cogliere nel malato sia sintomi che segni, cioè la duplice realtà del male, quella manifesta e quella
nascosta. Gli uni differiscono dagli altri per il loro valore semantico e
per la loro morfologia: i sintomi rappresentano le forme che prende
la malattia e ne costituiscono la trascrizione più immediata; i segni, invece,
sono degli annunci di ciò che succederà (segni prognostici), di ciò che è
successo (segni anamnestici), di ciò che sta succedendo (segni diagnostici),
ma tenendo a distanza la malattia, presentandosi in modo imprevisto, talvolta
in modo oscuro. Mentre il sintomo esprime la conoscenza del male, il segno
al più può aprire un discorso sul male, per raggiungere il più lontano, il
disotto, il più tardi. Ma
con l’aprirsi dello sguardo clinico si annullano tutte queste distinzioni,
assumendo ciascun sintomo e segno come significante integralmente trasparente
del significato della malattia, anzi l’essere del significato, vale a dire
il cuore della malattia, si esaurisce pienamente nella sintassi del significante.
Il segno s’identifica col sintomo nel senso che “dice” quella cosa che “è”
il sintomo, ma ciò che fa essere segno il sintomo non appartiene al sintomo,
è in altre parole un’attività esterna, perciò ogni sintomo è segno, ma ogni
segno non è sintomo. Il sintomo diviene segno sotto uno sguardo narrante che,
essendo sensibile ad ascoltare le differenze, le simultaneità, le successioni
e le frequenze, non può che essere lo sguardo clinico.
Lo sguardo clinico, infine, parte da una
situazione ordinaria di grande incertezza che caratterizza il campo dell’osservazione
del malato e del suo morbo; incertezza che dimostra la complessità dei fattori
interagenti e l’aleatorietà delle ricorrenze tra differenze, simultaneità,
successioni e frequenze. Un’aleatorietà che è del tutto opposta all’uniformità e al determinismo delle scienze
esatte (o formali o assiomatiche). Sempre nel Settecento, però, la medicina
scopre che anche l’incertezza può essere oggetto di calcolo rigoroso con la
prima scienza statistica, per effetto della quale anche il segno colto nella
sua presenza o assenza sul corpo del malato può entrare a far parte di una
serie stocastica di avvenimenti e di segni che conducono
lo sguardo clinico narrante a dire la malattia, senza più dover ricorrere
ad un’ontologia metafisica pregiudiziale.
3)
Approcci clinici in psicologia (J. M. G. Itard e J. Piaget)
Si suole ricordare l’osservazione e il
trattamento, realizzati nell’ambito della rieducazione del ragazzo selvaggio
chiamato Victor e attuata da J. M. G. Itard presso l’Istituto per sordomuti
di Parigi dal 1801 al 1806, come l’esempio più conosciuto di studio clinico
in psicologia
[16]
. Da quella esperienza, infatti,
l’A. trae due rapporti al Ministro committente che diventano anche due famose
relazioni alla Società degli Osservatori dell’Uomo (poco prima della sua chiusura
per ordine di Napoleone); anche se bisogna considerare che si tratta di un
intervento prevalentemente educativo, seppur realizzato a scopo riabilitativo
e da un medico studioso di sordità e mutismo, più che da uno psicologo
[17]
. A quel tempo, tuttavia, la psicologia scientifica non
è ancora nata mentre, invece, sempre in Francia sta nascendo la psicopatologia
d’origine medica prima con F. Pinel (maestro d’Itard) che distingue i malati
di mente dai malfattori e avvia l’istituzione degli ospedali psichiatrici,
poi con J. Esquirol che studia i comportamenti di questi malati ricoverati
nei primi manicomi ed elabora la prassi terapeutica chiamata “trattamento
morale” (morale, all’epoca, significava relativo alla mente).
Seguendo passo a passo la ricostruzione
dell’approccio rieducativo itardiano fatta da P. Crispiani
[18]
, veniamo a cogliere tutto il significato dell’atteggiamento
clinico nella costruzione progressiva e faccia a faccia (Itard vive nello
stesso Istituto dove è ricoverato il suo allievo selvaggio, con una consuetudine
di vita in comune tipica dei pedagogisti dell’Umanesimo italiano) di una “diagnosi
funzionale” delle singole facoltà del giovane Victor (aree motoria, senso-percettiva,
emotiva, intellettiva, linguistica, sociale e operativa), cui segue consequenzialmente
la definizione di un primo progetto educativo su cinque obiettivi (nell’ambito
sociale, della sensorialità, degli interessi, del linguaggio verbale e del
pensiero), poi rivisto, in apertura della seconda relazione (indirizzata alla
Società di cui sopra), con l’affermazione di una triplice direzione (verso
lo sviluppo delle funzioni sensoriali, intellettuali e delle facoltà affettive)
che rilancia il progetto verso una prospettiva più realistica. Segue, inoltre,
il trattamento con una minuziosa descrizione degli elementi che vanno a caratterizzare
ciascun obiettivo e con lo sviluppo di un’attenta strategia rieducativa calata
sui bisogni di Victor e arricchita delle numerose tecniche psicologiche e
didattiche definite da Itard medesimo, quando non disponibili nella cultura
dell’epoca.
Questo antecedente così altamente evoluto
nella sua originalità multidisciplinare, però, rimarrà un po’ sullo sfondo
della nascente scienza psicologica, prevalentemente occupata nel darsi le
prime dimensioni nomotetiche con ricerche quantitative sia con la Psicofisica
prima, che poi con la Psicologia dei reattivi mentali, il Comportamentismo
e la Psicologia della Forma, mentre con S. Freud il vicino campo (epistemico)
medico psicopatologico, invece, viene totalmente
ricombinato nella Psicoanalisi per effetto dell’atteggiamento clinico del
suo scopritore. L’atteggiamento clinico ritorna all’attenzione degli psicologi,
però, nell’ambito dello studio dei processi mentali da parte degli
anticipatori del Cognitivismo, con J. Piaget e altri Autori da un lato (tra
i quali si deve ricordare L. S. Vygotskij) e con gli studi sulle funzioni
corticali di A. R. Lurija dall’altro (di questo fondatore della nuova
disciplina neuropsicologica ci si occuperà più compiutamente quando tratteremo
delle scienze dell’educazione).
J. Piaget, dunque, porta nella psicologia
con originalità personale l’attitudine alla ricerca sul caso singolo, o metodo
longitudinale, che aveva già studiato il suo maestro E. Claparède
[19]
, combinando almeno tre diverse prospettive:
a) l’osservazione sistematica (quasi sperimentale)
dei suoi tre figli, per gli studi delle prime età dello sviluppo, avendo però
ben determinato prima gli invarianti funzionali, in altre parole le strutture
evolutive, difficili da individuare perché cambiano forma nel corso dello
sviluppo del soggetto, ma che vanno colti nel loro emergere ed evolvere successivo
(ad es. per lo sviluppo della funzione rappresentativa – invariante -, l’imitazione
in presenza e differita, il gioco simbolico e infine il linguaggio – funzioni
-).
b) Il metodo critico per le ricerche che
toccano le età dai quattro ai quattordici anni nell’acquisizione delle principali
nozioni logiche, linguistiche e infralogiche con determinazione di problemi
pratici (spesso in forma di gioco) che l’A. propone, facendo domande sull’interpretazione
del problema medesimo al ragazzo impegnato per metterne in luce le operazioni
mentali messe in gioco dalla soluzione.
c) Il metodo clinico, infine, quando si
tratta di far emergere le convinzioni spontanee dei ragazzi intorno agli eventi
naturali o come pensano che accadano i fenomeni nella realtà quotidiana. Per
far ciò, Piaget parte da un’osservazione occasionale provocata, ma poi prosegue
strutturando un colloquio mediante un’esplorazione
graduale e sistematica del convincimento del ragazzo. Tale esplorazione si
attua con domande regolate e costruite sulle precedenti risposte, evitando
accuratamente sia di dare suggestioni o suggerimenti con formulazioni che
introducono elementi tali da modificare la visione del soggetto, sia di soggiacere
ad un’osservazione pura, perché incapace di cogliere le credenze spontanee
presenti in forma inconsapevole, scegliendo, infine, tra le varie interpretazioni
evidenziate solo quelle non casuali o non attendibili
[20]
. C. Musatti, il padre della psicoanalisi italiana, ha analizzato
questo metodo clinico, riferendone la somiglianza con la pratica metodologica
psicoanalitica, sottolineandone anche il significato
di sperimentazione provocata, ma pienamente adattata alla configurazione psichica
di ciascun singolo soggetto.
J. Piaget, così, ha un posto del tutto
particolare nell’ambito psicologico, avendo determinato una vera e propria
scuola di ricerca (prima presso l’Istituto J. J. Rousseau di Ginevra e poi
in un Centro internazionale autonomo) che si chiama “Epistemologia genetica”,
perché studia come si determinano nell’infanzia i concetti fondamentali delle
diverse scienze, utilizzando la logica, come scienza assiomatica della ragione,
e la psicologia, come sua scienza sperimentale
[21]
. Per merito anche suo, dunque, il metodo clinico si è proposto
in psicologia come un atteggiamento di studio e ricerca
mirato all’osservazione e raccolta sistematica di dati diacronici relativi
a singoli individui, visti nel proprio ambiente naturale; tali ricerche qualitative,
poi, incrociate con dati sincronici di ricerche quantitative e statistiche
forniscono tutti gli elementi per la costruzione di un quadro generale del
funzionamento psicologico del soggetto, del suo sviluppo ed anche della sua
cura, quando in qualche modo leso
[22]
.
4)
Origini filosofiche della pedagogia clinica (J. J. Rousseau)
Sicuramente nella storia della pedagogia
sono rintracciabili molteplici esempi di atteggiamento
clinico, a cominciare da quello proprio del “pedagogo”, cioè di colui che,
nell’antico mondo greco-romano, accompagna il giovane rampollo di buona famiglia
nei suoi spostamenti da casa a scuola ed ovunque debba recarsi, per l’espressione
della cura che tale personaggio riversa nei confronti del fanciullo, dei suoi
bisogni vitali e della sua educazione. C’è, tuttavia, soprattutto un Autore
che, sebbene con la sua vita abbia testimoniato tutta un’altra prospettiva,
con le intuizioni del suo pensiero filosofico e pedagogico ha creato le condizioni
perché altri potessero realizzare un vero studio fondativi dell’approccio
clinico nei confronti della formazione dei giovani. Si tratta di J. J. Rousseau
e della sua opera pedagogica principale, l’Emilio: un romanzo dove si narra
della vita, dalla nascita ai vent’anni, di un giovane che si trova nel mondo
nuovo sorto dal “Contratto sociale” (altro gran debito che la società moderna
ha con quest’Autore). Il principio fondamentale è già stato enunciato nel
discorso con cui Rousseau vince il concorso sul tema “Se il ristabilimento
delle scienze e delle arti ha contribuito ad epurare i costumi” ed è ripreso
subito in apertura del romanzo: “Tutto è bene quando esce dalle mani dell’Autore
delle cose, tutto degenera fra le mani dell’uomo
[23]
”.
Da ciò si dipana un completo percorso
d’educazione naturale, unica formula che permette di salvaguardare nel formando
la sua “vocazione d’uomo”, liberando in altre parole le sue energie interne
di sviluppo senza direzionamenti e costrizioni esterne che ne indirizzino
il naturale evolvere. Tale sviluppo, dunque, si determina attraverso periodi
che hanno caratterizzazioni e configurazioni proprie
(autonome e specifiche), pur nella continuità dei processi evolutivi che si
susseguono fino alla maturità (educazione progressiva). In tale prospettiva
fino a dodici anni Emilio non avrà altro compito che quello di sviluppare
il corpo ed esercitare i sensi in un ambiente naturale di campagna per ragioni
igieniche e morali, perché “le città sono le voragini della specie umana”.
Il precettore, dopo la nutrice nella prima infanzia, avrà il compito di seguire
il piccolo, controllando ogni cosa, osservando l’emergere delle prime capacità
intellettive e accuratamente valorizzando il suo movimento spontaneo, col
portare il bambino da un posto all’altro per fargli percepire il cambiamento
di luogo e le distanze, ovvero nel contatto e nella manipolazione d’ogni cosa
presente nel suo ambiente (educazione attiva). Crescendo, intanto, le energie
aumentano e il comportamento diventa più controllato, “l’anima e il corpo
si mettono, per così dire, in equilibrio e la natura non richiede più che
il movimento necessario alla nostra conservazione”.
A questo momento dell’evoluzione individuale
“occorre studiare con cura il loro – dei ragazzi – linguaggio ed i loro segni,
onde poter distinguere, in un’età in cui non sanno dissimulare, ciò dei loro
desideri che viene immediatamente dalla natura –
da valorizzare –, da ciò che viene dall’opinione – da limitare –. Lo spirito
di queste regole è di accordare ai fanciulli maggior
libertà reale e minor imperio – capriccio –, di lasciar ch’essi facciano di
più da sé e meno esigano dagli altri”. Poi bisogna avvicinare alla lettura
il fanciullo, mediante piccole e semplici comunicazioni
scritte (inizialmente lette dal precettore, prima integralmente e poi parzialmente)
a lui dirette dalle persone vicine, anche se il libro nella sua educazione
apparirà solo a 12 anni. A conclusione di questa prima lunga fase “la prima
educazione deve essere dunque puramente negativa. Essa consiste non già nell’insegnare
la virtù e la verità, ma nel preservare il cuore dal vizio e lo spirito dall’errore”.
L’arte del precettore è quella del “governare senza precetti, far tutto senza
far nulla”, un metodo inattivo che propugna non di guadagnare tempo, ma di
perderne attraverso un’educazione indiretta.
Alla lunga infanzia subentra dai dodici
ai quindici anni una fase che segna l’inizio dei lavori, dell’istruzione e
dello studio, perché la natura sviluppa le forze del giovane adolescente più
dei bisogni, perciò “fin qui non abbiamo conosciuto altra legge che quella
della necessità: ora consideriamo ciò che è utile; arriveremo ben presto a
ciò che è conveniente e buono”. “All’attività del corpo, che cerca di svilupparsi,
succede l’attività dello spirito che cerca d’istruirsi” e in tale direzione
s’avvia un’istruzione esplicita, pur tenendo sempre in evidenza lo stimolo
dell’attenzione, che, sulla base dell’interesse, motiva anche un impegno con sforzo nel perseguimento
dell’apprendimento, anche con la personale costruzione degli strumenti necessari,
ma sempre al di fuori di confronti, rivali o gare, perché capaci di far “apprendere
soltanto per gelosia o vanità”. Il precettore, invece, deve rendere evidenti
i progressi del giovane, per stimolarlo senza farlo “geloso di nessuno. Egli
vorrà sorpassarsi, lo deve; non vedo nessun inconveniente nel fatto che sia
emulo di se stesso”. L’esperienza diretta delle cose è il mezzo pedagogicamente
corretto per insegnare ad Emilio e poi la lettura del “Robinson Crusoe” e
la sua messa in pratica con la realizzazione della
sua isola, con sviluppo del lavoro produttivo, ma da artigiano, ed infine
con l’immersione completa in un suo caratteristico mestiere e finanche nella
sua giornata e nella sua famiglia “per innalzarsi al livello” di tale lavoratore.
Con i quindici anni si determina il passaggio
dall’educazione utilitaria a quella sociale e morale, e anche in questo caso
non si compie con discorsi o prediche, ma con l’esercizio della virtù e per
poter realizzare questo esercizio, Emilio uscirà dalla sua situazione riservata
e nascosta andando per il mondo nella società degli uomini, per sentirli parlare
e per vederli agire; si tratta della seconda nascita, quella dell’adolescenza,
dove si può pensare “come dai primi movimenti del cuore si levino le prime
voci della coscienza, e come dai sentimenti d’amore e d’odio nascano le prime
nozioni di bene e di male”. Dall’amor proprio nasce il sentimento di pietà
e così Emilio farà la sua esperienza morale: conoscerà anche la storia per
poter leggere meglio nei cuori e utilmente leggerà persino le favole. Parimenti,
dunque, Emilio, agendo, imparerà le virtù sociali e a diciotto anni il suo
senso estetico e il suo senso religioso incontreranno la loro prima educazione
congiuntamente. Qui il testo di J. J. Rousseau, nell’affrontare il problema
dell’educazione religiosa, espone la professione di fede del Vicario Savoiardo
(condannate per eterodossia dal Parlamento di Parigi) che gli causerà quella
caduta più rovinosa della sua vita accompagnandolo fino alla fine.
Altre pagine
descriveranno poi l’entrata in società d’Emilio o, nel quinto volume, l’educazione
della fanciulla, tuttavia l’importanza del lavoro
per l’approccio clinico è già ampiamente testimoniata: a) dalla concezione
dell’autonomia dei singoli stadi di sviluppo, pur immersi nella progressività
unitaria del processo evolutivo, che rimane perenne monumento nella storia
del pensiero, ovvero b) dall’attenta osservazione e descrizione delle competenze
ai passaggi di stadio, quali espressione delle disposizioni fondamentali dell’essere
umano, ovvero c) dall’utilizzare come strumento educativo principale la risorsa
dell’attività interna spontanea, che però è guidata dall’accorta regia del
pedagogista mediante l’utilizzo delle condizioni esterne. d) Non da ultima,
infine, la cura ampiamente dimostrata nel testo per il fanciullo,
i suoi bisogni e la sua crescita, poi testimoniata dalla sopportazione con
cui l’A. ha sostenuto tutta la persecuzione culturale e sociale, ma anche
poliziesca, che ne è nata.
5) Pedagogia
scientifica (M. Montessori)
Spiccate caratteristiche d’atteggiamento
clinico in tempi più vicini a noi emergono dal pensiero e dall’attività, diffusi
in tutto il mondo, di M. Montessori, la prima donna in Italia ad esercitare
la professione di medico. La sua opera educativa, infatti, si fonda su una
ben precisa nozione di scientificità applicata al problema della formazione
dei bambini: mentre gli epigoni del positivismo ottocentesco
si cimentano nella misurazione delle caratteristiche fisiche e intellettive
degli alunni delle scuole con ricerche antropo e psico-metriche di tipo quantitativo
e propongono le loro ricerche come modello di una riforma della scuola, l’A.
invece propende per un approccio pedagogico autonomo, ma continuamente confrontato,
nel vivo dell’esperienza dell’azione educativa realizzata, con l’osservazione
scientifica dell’agire del bambino, un’osservazione “regolata con precisione”,
così come W. Wund e gli altri psicofisici avevano mostrato. Può perciò dire:
“Appena seppi di avere a mia disposizione una scuola di bambini, decisi di
studiare la loro educazione dal punto di vista scientifico e di procedere
fuori della via che tutti più o meno avevano percorso confondendo lo studio
dei bambini con la loro educazione e dando il nome di “pedagogia scientifica”
allo studio di bambini sottoposti alla scuola comunale che ne rimane invariata”
[24]
.
In altra occasione, poi, può meglio spiegare
come una pedagogia scientifica, se basata soltanto sullo studio antropologico
dell’allievo, tocca solo un versante del problema educativo, giacché l’uomo
non è solo prodotto biologico, ma anche prodotto sociale; per tale aspetto
invano si cercherà di migliorare le nuove generazioni, se non si riuscirà
ad influire sull’ambiente in cui esse crescono. Per questo le Case dei bambini
che rappresentano un ambiente educativo specifico nato nel contesto delle case popolari, per così dire “la scuola
in casa”, costituiscono un grande progresso che può attuare praticamente i
principi della pedagogia scientifica. Ad accentuare l’intervento educativo
indiretto, vale a dire attuato attraverso il contesto,
nelle Case ogni elemento dell’arredo ed ogni suppellettile, infatti, è costruita
a misura del bambino, così da essere facilmente usata senza bisogno dell’intervento
dell’adulto. Ciò permette a ciascun piccolo allievo di seguire il proprio
intento, muovendosi e agendo a proprio piacimento e in pieno agio; conseguentemente
gli arredi mettono al bando il solito banco scolastico per una più familiare
e consueta dotazione di quella mobilia che caratterizza
la casa di ciascuno (o l’ufficio e il laboratorio, poi l’A. dirà) permettendo
e richiedendo anche il complesso delle azioni che vanno sotto il nome di faccende
domestiche, mentre l’insegnante che presiede alle attività, chiamata “direttrice”,
s’impegna appunto in compiti di regia e d’aiuto, senza utilizzare i tradizionali
premi e castighi che possono accentuare la dipendenza del fanciullo, invece
di renderlo sempre più autonomo.
In questo contesto
ricco d’affettività, di vita e di cura familiare assume, poi, un posto fondamentale
un materiale specificatamente rivolto a ben indirizzare lo sviluppo della
“mente assorbente” del bambino. Un materiale che, affiancando le caratteristiche
dei processi naturali che determinano la crescita e lo sviluppo della mente
(allora studiati da O. Decroly in direzione dell’apprendimento globale), attiva e indirizza l’attività senso-percettiva che
costituisce la base dello sviluppo intellettuale. L’educazione sensoriale
nasce dalle intuizioni e dai lavori dei medici Itard e Séguin con i minorati,
riscoperti dalla Montessori e ulteriormente sviluppati nella prima fase del
suo intervento per l’infanzia anormale, quando è anche direttrice della Scuola
ortofrenica magistrale di Roma e collabora con gli psichiatri Sante De Santis
e Giuseppe Montesano. Tale materiale consiste di un ampio corredo di sussidi
speciali, come solidi da incastro e inclusione, blocchi e tavolette da costruzione,
figure geometriche piane e solide ecc., ma anche
di materiali di uso comune come matasse di filo, campanelli, recipienti, scatole,
palline, tessuti, carte assorbenti e da scrivere e abrasive, cartoncini da
ritagliare, colori ecc. e successivamente anche veri e propri materiali didattici
per l’apprendimento del leggere, dello scrivere, del calcolo e della misura.
“Il materiale sensoriale è costruito da
un sistema di oggetti, che sono raggruppati secondo
una determinata qualità fisica dei corpi – come colore, forma, dimensione,
suono, stato di ruvidezza, peso, temperatura, ecc. … Ogni singolo gruppo rappresenta
la medesima qualità, ma in gradi diversi: si tratta quindi di una graduazione
dove la differenza tra oggetto e oggetto varia regolarmente ed è, quando possibile,
matematicamente stabilita”
[25]
, questo materiale, perciò, obbliga, indirizza, struttura
la grande quantità di impressioni accumulata e assorbita negli anni precedenti,
dove “impressioni essenziali e causali sono tutte accumulate assieme, creando
una confusa, ma considerevole ricchezza nella sua mente subcosciente … il
bambino (all’entrata nella Casa) richiede una esatta guida scientifica, come
quella resa possibile dalla nostra dotazione strumentale e dai nostri esercizi”
[26]
.
Sono queste
parole molto importanti, per chi va in cerca della dimensione clinica in pedagogia,
che possono caratterizzare pienamente il pensiero
educativo di M. Montessori (in possibile collaborazione e non soltanto in
pieno contrasto, come sono interpretate abitualmente, all’apprendimento globale
di Decroly), assieme allo sviluppo originale del concetto di pedagogia scientifica,
con la sua pratica di un’osservazione strutturata sugli elementi dell’evoluzione
e della crescita infantile. Da questo pensiero diffuso col suo magistero,
oltreché dalla pubblicistica specializzata internazionale avviata dalla pedagogia
positivista, infatti, si sono affermate in Italia una dimensione emendativa
della pedagogia e una pratica differenziale della didattica rivolte alla scolarizzazione
dei disabili, soprattutto quando, dall’iniziativa della carità religiosa o
municipale negli istituti per giovani “anormali” o dalle sezioni infantili
degli ospedali psichiatrici dell’inizio del ‘900,
si passa con lo stato fascista e la riforma gentiliana
[27]
all’istituzione di scuole statali speciali e internati
(per ciechi, sordomuti e anormali propri – cioè psicofisici non recuperabili)
o delle classi differenziali (per falsi anormali – cioè psicofisici recuperabili)
presso le scuole normali e, dove non è possibile, alle convenzioni dei provveditori
con istituti privati su autorizzazione del ministero, con il conseguente sviluppo
delle scuole ortofreniche e dell’Istituto Romagnoli per la formazione di docenti
e dirigenti specializzati.
6) Pedagogia
emendativa e didattica differenziale (I. Cervellati e A. Benfenati)
La pedagogia emendativa (termine preferito
in Italia a quello di ortopedagogia che, invece,
risulta maggiormente usato all’estero
[28]
) è quel settore della pedagogia generale che si occupa
dell’educazione dell’infanzia “minorata, irregolare o anormale”: termini generali
in uso nei pedagogisti degli anni 20 e 30 del secolo scorso
[29]
al posto di quelli medici (sia vecchi, come deficiente,
cretino e idiota, che nuovi, come frenastenico, ritardato, insufficiente
mentale ecc.), già segnati dallo stigma dispregiativo dell’uso comune, che
cederanno a loro volta il posto prima ad un termine ancora generale come “inadattato
– disadatto – disadattato” e poi, con le indicazioni della commissione Falcucci,
si differenzieranno negli anni ’70 nei due filoni dell’handicap, l’uno, e
dello svantaggio, l’altro, da cui nascono i termini in uso oggi. La pedagogia
emendativa, per I. Cervellati
[30]
attinge alle scienze biologiche, psicologiche e neurologiche
applicate all’educazione dei disabili per realizzarsi pienamente nella didattica
differenziale e perciò la collaborazione con i medici è molto importante;
ma la prospettiva clinica dell’A. porta subito a chiarire che anche l’insegnante
deve poter svolgere delle attività d’osservazione e di verifica-valutazione,
nonché di emendazione con i necessari strumenti suoi
propri (materiale sensoriale della Montessori e molti altri sussidi che la
stessa Cervellati ha potuto studiare e inventare, da cui viene il cosiddetto
“metodo Cervellati”).
Chi non riconosce questa necessità, fa
un errore molto grave, ritenendo che la didattica differenziale possa limitarsi
ad una formula ripetitiva di alcune prove e test
più taluni espedienti educativi, mentre all’opposto i principi clinici portano
ad affermare che: 1) “non esistono anormalità, ma soggetti anormali” (non
casi, ma persone), 2) “l’uniformità dei mezzi nega l’individualità dei casi
ed impedisce la loro soluzione” (usando gli stessi sussidi non si possono
personalizzare i percorsi). “Da ciò risulta evidente
che il materiale didattico, tanto per l’indagine quanto per l’emendamento,
pur rispondendo a criteri generici, acquista una fisionomia individuale e
aderisce alla infinita varietà della casistica, traendo motivo sia dalla tecnica
scientifica di questo o quel metodo, sia dalla particolare fisionomia di questo
o quel soggetto … La tecnica scientifica della didattica differenziale richiede
quindi che il maestro, conosciuto il caso, trovi sperimentalmente il modo
di risolverlo ed usi a questo scopo i mezzi più adatti alla sua fisionomia
specifica
[31]
”.
Da ciò
discende un procedimento metodologico come il seguente:
1)
“conoscenza sicura del caso (anamnesi somato-psicologica,
profilo mentale, caratteriale, psicomotorio e sensoriale),
2)
precisazione dei profili per ottenere le indicazioni pedagogiche
necessarie,
3)
trattamento correttivo in campo motorio-fonetico con speciale apparecchiatura
per l’educazione fisica (scala ortopedica italiana e “valedior” Cervellati,
riconosciuti dal ministero) e per gli esercizi di equilibrio, di respirazione
e di euritmia,
4)
educazione sensoriale con nuovi dispositivi specifici diretti a
facilitare, differenziare ed associare le percezioni,
5)
ortopedia mentale avente lo scopo di migliorare il profilo psicologico,
esercitando le facoltà carenti, provocando fenomeni di compensazione, impegnando
il soggetto con sforzi graduati (v. materiale didattico),
6)
avviamento alla scolarità fondata sull’attività psicosensoriale
e motoria per arrivare a quella giudicativi, raziocinante e pratica,
7)
scolarità con applicazione graduale del metodo globale e trattamento
ciclico della disciplina,
8)
lavoro intenso come coordinazione fisico-psichica, di legame
sociale di collaborazione e di autosufficienza (organizzazione cooperativa
…),
9)
contemporaneo trattamento psicoterapeutico facilitato dall’autonomia
della scuola e dall’azione diretta sull’ambiente e sulla famiglia”
[32]
.
Quell’osservazione,
dunque, di tipo wundiano che per M. Montessori era stato il segno più evidente
e tangibile della pedagogia scientifica e che andava tenuta distinta dall’intervento
educativo in atto, già teso a direzionare lo sviluppo
sensopercettivo del fanciullo, in I. Cervellati e nella pedagogia emendativa
diviene il processo costante che accompagna la didattica differenziale verso
la “normalizzazione” del soggetto disabile. Perché
normalizzare il disabile, poi, lo spiega accuratamente, se ce ne fosse ancora
bisogno, A. Benfenati: “Mentre nel fanciullo normale
esiste già una disposizione a compiere spontaneamente con vigore certi atti
miranti al raggiungimento di un fine utilitario e di perfezionamento in virtù
della sua propria normale costituzione anatomica, nel minorato, invece, per
causa delle sue condizioni organiche e psichiche deficitarie, tale spinta
manca, per cui l’attività di lui deve essere stimolata, indirizzata e sorretta
in modo assiduo al fine di raggiungere il recupero completo, o il più alto
grado possibile di esso”
[33]
. L’atteggiamento clinico, pur nella predeterminazione degli
obiettivi di normalizzazione, rimane a fondamento del processo educativo,
tuttavia cominciano a prevalere gli aspetti procedurali e metodologici fissati
dalla pratica nei tempi, nelle successioni, nelle strumentazioni ecc. e in
altre parole proprio ciò che sia I. Cervellati, con: “Il metodo nasce dalla
personalità dell’educatore e l’amore dell’educatore per il fanciullo
ipodotato è il suo lume migliore”
[34]
, sia A. Benfenati, con: “Le metodologie elaborate per il
recupero dei minorati sono molte ... Tutte sono utili, ma nessuna può essere
applicata totalmente a tutti gli inadattati, perché ogni minorazione va considerata
e trattata a sé: il caso deve essere risolto sempre in modo individuale”
[35]
, sicuramente non volevano.
7)
Da pedagogia speciale a pedagogia clinica (R. Zavalloni, A. Canevaro e P.
Crispiani)
Presto
dalla pedagogia emendativa si passa alla pedagogia speciale, con un uso tutto
italiano, come ci ricorda R. Zavalloni: “Ormai è noto che la - pedagogia speciale
- non va intesa nel senso che si usa dare, in Italia, al termine - scuola
speciale -, ma nel senso più vasto e comprensivo che
le viene attribuito nel campo internazionale ... la pedagogia speciale si
riferisce a tutti quei soggetti che in qualche modo si discostano dalla norma”
[36]
; al cambio del nome, tuttavia, non corrisponde un cambio
nel fine: “La pedagogia speciale ha per scopo la normalizzazione del comportamento
degli educandi, siano essi minorati fisici, psichici o disadattati sociali”
[37]
, però si tratta di una normalizzazione differente da quella
indicata nella pedagogia emendativa, se lo stesso A. può continuare il suo
discorso, aggiungendo (già nel 1969): “Che una pedagogia speciale, aggiornata
nei metodi educativi e nelle tecniche didattiche, debba penetrare negli istituti
speciali e debba essere assimilata da tutto il personale educativo (personale
delle scuole e degli istituti speciali), non vi è chi lo possa mettere in
dubbio ... ma si comincia anche a rendersi conto, sia pure lentamente, che
una pedagogia speciale, modernamente intesa, può e deve penetrare il più possibile
nelle stesse scuole comuni per essere di aiuto a tutti gli insegnanti, al
fine di realizzare un’azione educativa e preventiva ad un tempo”.
In questa
direzione, Zavalloni propone sia un indirizzo di pedagogia terapeutica con
la “terapia centrata sulla persona”, rivisitazione personalistica
della terapia centrata sul cliente di C. Rogers, sia una nuova figura di operatore
educativo nel “consigliere pedagogico
[38]
” il cui compito concorre a coprire lo spazio operativo
che si dispone tra i gruppi di lavoro ai quali, nel frattempo, è stata assegnata
nella prima fase dell’integrazione dei disabili nelle classi normali (CC.
MM. 216/77, 167/78, 258/83 e 250/85) l’attuazione del Piano educativo individualizzato
per il singolo alunno disabile, e la èquipe medico-psichiatrica che presiede
alla diagnosi (medica) funzionale alla definizione del medesimo Piano, trovando
anche ampi possibili sviluppi nell’orientamento. Originali sviluppi clinici,
tuttavia, più che in queste direzioni, sono assunti dalla pedagogia speciale
contemporanea come riduzione dell’handicap di A.
Canevaro
[39]
che, pur non rinunciando alla possibilità di risposte speciali
a bisogni speciali, prende le distanze dalla pedagogia speciale come risposta
preconfezionata a bisogni per categorie, tipica di un’epoca passata in cui
la categorizzazione ha pur consentito di dare risposte più stabili.
La categorizzazione,
infatti, nasce sicuramente dalla necessità di una rilevazione il più possibile
oggettiva dell’handicap, ma non esaurisce la visione del soggetto in tale
situazione che, all’opposto, se integrato (e non emarginato), non può apparire
cristallizzabile in una conoscenza esaustiva, ma si rivela in tutta la sua
realtà solo nel contesto. Le differenze personali
derivate da deficit (acquisita la distinzione tra malformazione, deficit e
handicap proposte dall’Oms nel 1980), infatti, pur avendo insieme carattere
ripetitivo e all’opposto personale, costituiscono una variabile da coniugare
all’interno del contesto integrativo e nell’arco
dello sviluppo di un processo comunicativo e d’indagine sulle competenze residue.
Anche nel deficit grave, dove non sussistono margini di cambiamento del danno,
si può interagire con gli elementi del contesto che consentono di migliorare la qualità della vita
e di ridurre l’handicap, identificando la competenza mediante una maggior
capacità di lettura della medesima, per effetto della riconduzione degli elementi
di differenza all’appartenenza ad un tessuto comune. Tutte queste sono caratterizzazioni
pienamente di marca clinica e richiedono all’approccio operativo l’assunzione
di un atteggiamento clinico, mentre si esprimono in un processo clinico applicabile
a tutti i soggetti d’educazione (personalizzazione), come l’A. ha dimostrato
con i suoi “potenziali individuali di sviluppo”.
Per P.
Crispiani il termine “clinico”, infatti, non significa “sanitario” né “patologico”,
“bensì atto di studio, analisi, diagnosi, progettazione ed intervento portato
in modo ravvicinato e diretto alla singolare individualità delle persone,
dei gruppi o delle situazioni. Empiricità, individualità ed ecologia sono
alcuni dei paradigmi fondanti la pedagogia clinica, in grado di lavorare,
in riferimento alle teorie, alle esperienze ed alle
procedure tecnologiche disponibili, con consapevole orientamento ai singoli
specifici problemi, colti nella globalità della personalità, in relazione
a contesti irripetibili, ed alla luce delle soggettuali risorse dell’educatore
o del pedagogista”
[40]
. In tal senso un approccio clinico in pedagogia non può
che avviarsi su queste esplicite direzioni che concludono
in senso positivo le premesse di R. Massa: parlare di pedagogia clinica significa
(sintesi delle 20 scelte proposte da P. Crispiani)
[41]
·
porre in evidenza e sostenere la singolarità e irripetibilità
delle caratteristiche personali e di apprendimento di ciascun allievo e, per
sua espressione, di ciascun gruppo e contesto sociale di studio e lavoro,
·
riconoscere e stimolare la specificità della partecipazione di ogni
soggetto protagonista nella configurazione e conduzione del fenomeno formativo,
educativo o scolastico,
·
proporre nelle prassi didattiche attenzione ai processi relazionali
e di comunicazione ed espressione, come presupposti fondanti dei processi
d’orientamento e d’insegnamento e apprendimento,
·
investire nella fase iniziale di conoscenza/diagnosi dei bisogni
di formazione degli allievi con attenzione alle diversità e mediante l’uso
di vari sussidi e strumentazioni, senza cristallizzarla in categorie fisse,
ma considerandola sempre un bilancio temporaneo e in divenire,
·
nella costruzione dei percorsi formativi favorire nuove modalità
progettuali post-programmatorie, contestualizzate ed ecologiche,
·
applicarsi con la massima cura ai soggetti che esprimono tutte
le diverse difficoltà, sostenendo un atteggiamento d’aiuto che incrementi
le capacità dei soggetti di rendersi autonomi e consapevoli,
·
favorire l’insegnamento personalizzato con ricorso a procedure
plurali e ricorsive, ma piegabili alle diversità di ritmo, stile, dotazione
ecc. di ciascuno.
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[1]
R. Massa (a cura di), Istituzioni di
pedagogia e scienze dell’educazione, Laterza Roma-Bari 1990
[2]
U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità,
Carocci Roma 2000
[3]
Cfr. M. P. Dellabiancia, Approccio
alla pedagogia generale e sociale, in www.nonsolofitness.it/dellabiancia,
anno 2004
[4] Cfr. A. Canonici (a cura di), L’addestramento e la formazione del personale, Milano Angeli 1971, G.P. Quaglino e G. P. Carrozzi, Il processo di formazione, Angeli Milano 1981, G. P. Quaglino, Fare formazione, Il Mulino Bologna 1985 e D. Demetrio, Manuale di educazione degli adulti, Laterza Roma-Bari 2003
[5] Cfr. AA. VV., Unità Capitalizzabili e crediti formativi, collana Isfol, Strumenti e ricerche, Angeli Milano 1998
[6] Cfr. A. Grimaldi (a cura di), Modelli e strumenti a confronto: una rassegna sull’orientamento, e Orientamento: modelli, strumenti ed esperienze a confronto, collana Isfol, Strumenti e ricerche, Angeli Milano rispettivamente 2001 e 2002; C. Montedoro (a cura di), L’orientamento degli adulti sul lavoro, Isfol Roma 2001
[7]
Cfr. M. P. Dellabiancia, Verso un sistema regionale integrato
dell’orientamento in Emilia e Romagna” sul sito "www.dellabiancia.it/orientamento"
anno 2003
[8] Cfr. Rapporti della Commissione Europea “Insegnare ad apprendere, verso la società cognitiva, Bruxelles 1995 e “Vivere e lavorare nella società dell’informazione: priorità alla dimensione umana, Bruxelles 1996
[9] Cfr. le ricerche di C. Cornoldi e R. De Beni sulla metacognizione, di S. Soresi, P. Meazzini e L. Nota sull’orientamento, di M. Pellerey sulle strategie di apprendimento, di K. Polacek e M. Viglietti sugli interessi professionali
[10] Cfr. Indicazioni Nazionali per i piani personalizzati delle attività educative nelle scuole dell’infanzia, Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati nella scuola primaria e Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati nella scuola secondaria di I grado, allegati A, B e C al D. Legislativo n. 59/04
[11] R. Massa (a cura di), Op. Cit., La clinica della formazione, F. Angeli Milano 1992 e Clinica della formazione medica, F. Angeli Milano 1997.
[12] Da R. Massa (a cura di), La clinica della formazione, (Op. Cit.), pag. 23
[13] Da M. Foucault, Nascita della clinica, Einaudi Torino 1969, pagg. 15, 16 e 17
[14] Da M. Foucault, Op. Cit. pag. 17
[15] Da M. Foucault, Op. Cit. pag. 19
[16] J. M. Reisman, Storia della psicologia clinica, R. Cortina Milano 1999
[17] S. Moravia, Il ragazzo selvaggio dell’Aveyron, Laterza Bari 1972
[18] P. Crispiani, Itard e la pedagogia clinica, Tecnodid Napoli 1998
[19] N. Filograsso, I. Piaget e l’educazione, Argalia Urbino 1974
[20] G. Petter, Lo sviluppo mentale nelle ricerche di J. Piaget, Giunti e Barbera Firenze 1982
[21] G. Petter, Il contributo di J. Piaget, Giunti Bemporad Marzocco Firenze 1971
[22]
G. P. Lombardo e R. Foschi, Introduzione a J. M. Reisman,
Op. Cit. pag. XVIII
[23] A. Visalberghi (a cura di), Rousseau. L’Emilio (Passi scelti), Laterza Roma-Bari 1982, passim da pag. 51 a pag. 174 per tutte le citazioni seguenti nel paragrafo
[24] M. Montessori, La scoperta del bambino, Garzanti Milano 1951, II edizione di una I edizione del 1906, pag. 43
[25] M. Montessori, Op. Cit. pag. 111
[26] M. Montessori, Op. Cit. pag. 110
[27] N. Daniele, Istituzioni di diritto scolastico, Giuffrè Milano 1976, pagine 76 e 137. P. Sacco, L’organizzazione amministrativa della pubblica istruzione, Giuffrè Milano 1976 da pag. 68 a pag. 70
[28] G. Giugni, Introduzione allo studio della pedagogia, Sei Torino 1971, a pag. 38
[29]
Si confronti G. Calò, Pedagogia degli anormali, ovvero
«A. Descoeudres, L’éducation des enfants anormaux, Delachaux Neuchàtel 1922 »
e, per una discussione dei termini, A. Benfenati, Didattica differenziale,
Montefeltro Urbino 1964, capitolo I, ovvero G.
Giugni, Op. Cit. IV parte, ovvero R. Zavalloni, Introduzione alla pedagogia
speciale, La Scuola Brescia 1969, capitolo I
[30] I. Cervellati, Didattica differenziale, G. Barbera Firenze 1978, riedizione di Rigenerazione, edita da Cappelli a Bologna nel 1936, pag. 63
[31] I. Cervellati, Op. Cit. pagg. 65 e 66
[32] F. Grazioli, Presentazione in I. Cervellati, Op. Cit. pagg. 13 e 14
[33] A. Benfenati, Op. Cit. pag. 57
[34] R. Canestrai, Presentazione in I. Cervellati, Op. Cit. pag. 6
[35] A. Benfenati, Op. Cit. pagg. 23 e 24
[36] R. Zavalloni, Op. Cit. pag. 8
[37] R. Zavalloni, Op. Cit. pag. 35
[38] R. Zavalloni, Per una “pedagogia della normalizzazione”. La terapia-centrata-sulla-persona, in M. Mencarelli a cura di, Handicap progetto educazione, Giunti e Lisciani Teramo 1984/85, da pag. 67 a pag. 83
[39] A. Canevaro, Pedagogia speciale. La riduzione dell’handicap, B. Mondadori Milano 1999
[40] P. Crispiani, Pedagogia clinica, Ed. Junior Azzano San Paolo 2001, pag. 29